Una dieta ricca di sodio può alterare in maniera negativa il microbioma intestinale.
Questo è quello che è emerso da un recente studio, svoltosi su modello umano, pubblicato dai ricercatori del Georgia Prevention Institute sulla rivista Hypertension.
Il microbiota intestinale è costituito da tutti i batteri, virus, protozoi e funghi che popolano il tratto gastrointestinale: hanno una ampia gamma di funzioni che vanno dalla digestione del cibo alla risposta immunitaria, fino ad influenzare la propensione o meno ad aumentare di peso. I problemi del microbiota sono associati all’insorgenza di diverse malattie, dai problemi gastrointestinali alle allergie, fino ad alcune forme di cancro.
Mentre solitamente per determinare la composizione del microbioma si esegue un esame genetico delle feci, in questo caso sono invece si prendono in considerazione gli acidi grassi a catena corta (SCFA) che sono il principale metabolita di origine microbica; il loro livello ematico può quindi essere considerato un indicatore della salute del microbioma intestinale.
Lo studio è randomizzato (ad ogni individuo dello studio è assegnato in modo casuale uno fra i trattamenti in studio oppure il placebo), incrociato (ogni partecipante riceve/non riceve un trattamento in una sequenza temporale), in doppio cieco (per evitare di influenzare i risultati, né i pazienti ne gli sperimentatori sono a conoscenza di come e a chi siano stati assegnati il trattamento e/o il placebo), controllato con placebo (sostanza inattiva, non tossica, somministrata nella forma e nei modi della sostanza in esame di confronto).
Questo studio, della durata di 6 settimane, ha avuto come scopo quello di testare l’ipotesi che una riduzione dell’assunzione di sodio possa contribuire ad alterare le concentrazioni circolanti di SCFA nei soggetti ipertesi non trattati e che questi cambiamenti possano portare ad una riduzione della pressione sanguigna e al miglioramento dei fenotipi cardiovascolari.
La dott.ssa Haidong Zhu, genetista molecolare del Georgia Prevention Institute presso il Medical College of Georgia dell’Università di Augusta, ha affermato che “esiste una connessione” fra lo stato di salute del microbioma intestinale e la regolazione della pressione arteriosa; una dieta particolarmente salata come quella americana, quindi, può interferire con una vita sana.
Gli SCFA, infatti, sono coinvolti nella regolazione della pressione sanguigna: questi piccoli metaboliti si legano ad alcuni recettori presenti sul rivestimento dei vasi sanguigni e nei reni giocando un ruolo importante nel controllo della pressione sanguigna.
Nella sperimentazione sono state incluse 145 persone appartenenti ad entrambi i sessi, di diverse etnie ed età (comprese tra i 30 e i 75), accomunate però dal fatto di avere la pressione troppo alta, e di non essere mai state sottoposte ad alcun trattamento specifico.
I partecipanti sono stati suddivisi in due gruppi: a uno è stato somministrato sodio attraverso una pastiglia da assumere nove volte al giorno, all’altro un placebo nella stessa forma. Questo è stato preceduto da un’adeguata formazione di due settimane, svolta da infermieri, sugli accorgimenti da adottare per ridurre la quantità di sodio assunta fino a 2 g al giorno, che sono stati ribaditi per tutto il corso dello studio.
L’obiettivo era fare in modo che il gruppo di trattamento raggiungesse una concentrazione di sodio di 2,3 g, ossia la quantità considerata ottimale dall’American Heart Association, che è di molto inferiore a quella media assunta dalla popolazione americana, che si aggira attorno ai 3,4 g.
In seguito alla profilatura post trattamento si è potuto notare che la riduzione del sodio ha portato ad un aumento di tutti e 8 gli SCFA.
A questo risultato si è aggiunto che un aumento degli SCFA è stato associato anche ad una riduzione della pressione sanguigna e al miglioramento dell’elasticità dei vasi sanguigni.
Un esempio pratico di questo miglioramento: la pressione nelle 24 ore è risultata diminuita in media di 5 punti, un effetto assai significativo per chi deve tenerla sotto controllo, e lo stesso si è visto per quella notturna, scesa di 5 (quella sistolica) e 3 punti (quella diastolica) nelle donne, e di circa tre punti nei maschi per entrambi i valori.
Un altro dato interessante è che sono state evidenziate delle risposte differenti in relazione al sesso dei soggetti in esame: il miglioramento è risultato, infatti, più accentuato nelle donne che negli uomini. Secondo Zhu questo potrebbe essere dovuto al fatto che la pressione sanguigna sia influenzata attraverso pathway diversi nei maschi e nelle femmine e che il consumo di sale influisca in maniera differente.
Questi risultati mostrano quindi che la riduzione del sodio nella dieta aumenta effettivamente gli SCFA circolanti, sostenendo l’ipotesi che il consumo di quantità più o meno elevate di sodio con dieta possa influenzare il microbioma intestinale nell’uomo e che esiste una differenza sessuale nella risposta SCFA alla riduzione del sodio. Inoltre, un aumento degli SCFA è effettivamente associato alla riduzione della pressione sanguigna e al miglioramento della compliance arteriosa.
Questa ricerca ha gettato le basi per proseguire con gli studi sull’uomo, con lo scopo di condurre un’indagine più ampia nel quale verranno misurate anche direttamente la composizione del microbioma dalle feci in seguito alle diverse diete.
Se i risultati dovessero essere confermati anche sull’uomo (visto che sui modelli animali è già stato dimostrato), ci sarebbero ulteriori motivi per consigliare preventivamente una dieta a basso contenuto di sale a chi soffre di ipertensione, prima di ricorrere alle terapie farmacologiche.
Fonti e approfondimenti:
Li Chen, Feng J. He, Yanbin Dong, Ying Huang, Changqiong Wang, Gregory A. Harshfield, Haidong Zhu; Modest Sodium Reduction Increases Circulating Short-Chain Fatty Acids in Untreated Hypertensives; Hypertension. 2020;76:73–79
https://it.wikipedia.org/wiki/Studio_clinico
www.ahajournals.org/doi/full/10.1161/HYPERTENSIONAHA.120.14800
www.ilfattoalimentare.it/sale-microbiota-sodio.html