Alimentazione sana per un corretto stile di vita: qual è il ruolo della frutta secca?

Alimentazione vs Nutrizione

Alimentazione e nutrizione sono due aspetti fondamentali per la salute ed il benessere, ma nonostante la loro semplicità, rimangono tra i concetti meno capiti, perché?

Perché in realtà si riferiscono a due concetti molto diversi che invece vengono comunemente utilizzati come sinonimi.

Iniziamo col definire cos’è l’alimentazione: l’alimentazione può essere descritta come l’insieme dei processi che avvengono da quando inseriamo un alimento in bocca a quando lo “smontiamo” (attraverso masticazione e digestione) ottenendo le componenti che possono essere assorbite dall’organismo: i nutrienti.
Che cos’è invece la nutrizione? La nutrizione è l’insieme dei processi necessari a trasportare i nutrienti assorbiti agli organi e ai tessuti che li utilizzeranno.

Capire questi due aspetti è molto importante perché è possibile alimentarsi senza nutrirsi in maniera adeguata. Perché la nutrizione sia veramente “buona” non è sufficiente fornire nutrienti all’organismo, ma è necessario farlo nelle giuste proporzioni, in modo che siano disponibili tutti i “materiali” necessari a farci funzionare. Come per il buon funzionamento di un motore sono necessari carburante, aria e olio nelle giuste proporzioni, per il corretto funzionamento dell’organismo è fondamentale fornire nutrienti in quantità e proporzioni corrette.

Cosa sono e quali sono i nutrienti?

I nutrienti possono essere definiti come le sostanze necessarie all’organismo ottenibili dalla digestione degli alimenti. Vengono suddivisi in macronutrienti, cioè quelli necessari in quantità maggiori e micronutrienti, cioè quelli necessari in quantità minori.

Tra i macronutrienti troviamo proteine, grassi e carboidrati, mentre tra i micronutrienti troviamo vitamine e minerali.

Tra i nutrienti alcuni vengono definiti essenziali, cioè devono essere necessariamente assunti con l’alimentazione, tra i nutrienti essenziali troviamo le proteine, i grassi (acido linoleico un grasso omega 6 e acido alfa linolenico un grasso omega 3), le vitamine e i minerali.

I carboidrati e gli altri grassi non vengono considerati essenziali perché l’organismo li può utilizzare in maniera “intercambiabile” per produrre energia.

Le proteine

Le proteine sono sostanze molto complesse utilizzate per la costruzione e il funzionamento di buona parte dell’organismo. Muscoli, parte delle ossa, tendini, legamenti, e tante altre strutture sono fatte di proteine. Anticorpi, alcuni ormoni e altri componenti dell’organismo sono proteine o sono realizzate a partire da proteine: in pratica funzioniamo grazie alle proteine.

Le proteine riescono a ricoprire tanti ruoli diversi grazie alla loro struttura; sono infatti realizzate a partire da 20 aminoacidi, che, come gli anelli di una catena, possono essere assemblati in diverse sequenze, permettendo realizzazione di “strutture” molto diverse tra loro, in grado di comportarsi come elementi di struttura (es. collagene), come elementi in grado di muoversi (es. muscoli) come piccole “macchine” (es. enzimi) o come veri e propri messaggeri chimici (es. alcuni ormoni).

Dove possiamo trovare le proteine?

Diversi alimenti possono essere utilizzati per fornire proteine all’organismo. Gli alimenti di origine animale vengono in genere considerati una buona fonte di proteine, tra questi troviamo principalmente carne, pesce e prodotti lattiero caseari. Anche gli alimenti di origine vegetale possono rappresentare un interessante fonte di proteine, in particolare i legumi, la frutta secca, alcuni pseudocereali e i prodotti da essi derivati rappresentano alcune tra le fonti più ricche.

La frutta secca in particolare si dimostra molto versatile, in quanto utilizzabile in diverse forme sia per la realizzazione di prodotti dolci sia per la realizzazione di prodotti salati, risultando quindi abbinabile ad una grande varietà di piatti e di preparazioni.

Ma quali sono le sue caratteristiche? Vediamolo.

Le caratteristiche nutrizionali della frutta secca

Le diverse tipologie di frutta secca mostrano caratteristiche nutrizionali molto interessanti.

Oltre ad avere un contenuto proteico di rilievo, mostrano anche un buon tenore di diversi minerali e buone proporzioni di grassi “buoni” come l’acido oleico (sostanza tra le principali responsabili degli effetti benefici dell’olio extravergine di oliva) e l’acido linoleico sostanza di partenza per la produzione dei famosi acidi grassi essenziali omega 6.

  • La mandorla (Prunus amygdalus communis) si dimostra una buona fonte di proteine, contenendone 22 g/100g, oltre ad essere una buona fonte di potassio, calcio, magnesio ma soprattutto fosforo. Molto interessante anche il suo contenuto in grassi, suddiviso per oltre il 71% da acido oleico e 19.25% da acido linoleico.
  • La nocciola (Corylus avellana) rappresenta una discreta fonte di proteine, ne contiene 13.8 g/100g, contiene inoltre interessanti livelli di minerali e un ottimo tenore grassi “buoni”, dove l’acido oleico rappresenta il 75.6% degli oltre 64g di grassi in totale contenuti.
  • Il pistacchio (Pistacia vera) è un interessante fonte di proteine dal notevole tenore in potassio e fosforo, con livelli minori ma comunque interessanti di calcio e magnesio. Un ulteriore punto di forza del pistacchio è rappresentato dal suo contenuto in acido oleico e acido linoleico che rappresentano rispettivamente oltre il 69 e il 20% dei 69g di grassi contenuti su 100g di pistacchi.
  • L’anacardio (Anacardium occidentale) rappresenta un alimento estremamente interessante, unisce a un contenuto calorico più basso di quello di altra frutta secca, un buon contenuto proteico, con un discreto contenuto in minerali. In questo quadro degno di nota il tenore di acido linoleico che rappresenta oltre il 18% dei 46g di grassi contenuti in 100g di anacardi.
  • L’arachide (Arachis hypogaea) rappresenta tra la frutta secca l’alimento dal tenore proteico più alto, contenendone ben 29g/100g, insieme ad alto tenore di fibra, ottimi livelli di minerali. Completano il quadro buoni livelli di acido oleico e ottimi livelli di acido linoleico, che rappresentano rispettivamente oltre il 51% e il 31% dei 46g di grassi contenuti in 100g di arachidi.
La composizione proteica dei frutti descritti si dimostra carente nell’aminoacido lisina; eventuali preparazioni alimentari realizzate per fornire un apporto completo di proteine dovrebbero considerare l’abbinamento con alimenti ricchi in lisina (es: preparazioni con uova, latte, yogurt, farine di legumi, arance, grano saraceno, ecc.).

Tutti i principali valori nutrizionali sono riepilogati nella Tabella 1

Oltre ad essere consumata direttamente, la frutta secca può essere anche lavorata ottenendone delle creme fluide e vellutate, che senza aggiunta di nessun altro ingrediente possono essere consumate tali e quali oppure essere aggiunte a numerose preparazioni, contribuendo a completare il profilo di nutrienti di un pasto completo.

Tutti i valori sono tratti dalle tabelle nutrizionali disponibili sul sito del CREA: https://www.alimentinutrizione.it/tabelle-nutrizionali/ricerca-per-alimento

Tabella 1: Principali Valori nutrizionali della frutta secca analizzata nel testo

 

Proprietà nutrizionali delle creme di frutta secca

Tutte le creme hanno un solo ingrediente: la frutta secca. Il particolare processo di macinazione utilizzato consente di ottenere creme fluide e vellutate, dalla consistenza morbida e spalmabile senza la necessità di aggiungere addensanti, emulsionanti, olii o burro di cacao. L’ottimale diffusione degli aromi naturalmente presenti nella frutta secca permette di ottenerne il 100% del sapore, senza la necessità di aggiungere zuccheri, sale, latte o agenti aromatizzanti.

La completa naturalità è evidente dal piccolo strato oleoso che tende a separarsi e depositarsi sopra la parte proteico-fibrosa; dimostrando la completa assenza di emulsionanti, addensanti o qualsiasi ingrediente non sia naturalmente presente nella frutta secca.

  • Crema di mandorle

 

 

La crema di mandorle pelate rappresenta un “concentrato” di proteine contenendone ben 27g/100g, con un buon tenore di fibra, una consistenza fluida, cremosa e un sapore delicato. L’ideale per completare un piatto o una preparazione, arricchendola ma non coprendone il gusto.

 

La crema di mandorle tostate rappresenta il giusto equilibrio per chi vuole un buon tenore di proteine di origine vegetale insieme a un alto livello di fibre. La tostatura permette di liberare tutti gli atomi della mandorla, permettendo di ottenere un prodotto dalla consistenza cremosa e robusta per un gusto deciso ed aromatico, ideale come singola farcitura o elemento protagonista di un piatto o una preparazione.

 

  • Crema di nocciole

 

 

La crema di nocciole oltre al buon tenore di proteine e al discreto tenore di fibre, vanta un notevole quantitativo di acido oleico, naturalmente presente nel frutto di origine. Il caratteristico sapore morbido e avvolgente per una consistenza fluida e cremosa ne fanno la scelta ideale per completare preparazioni dolci, a base di frutti o nel completamento di porridge o creme.

  • Crema di pistacchi e mandorle

 

 

L’unione di pistacchio e mandorla permette di ottenere una crema notevolmente ricca di proteine, ben 26g/100g, con un buon tenore di fibra e l’inconfondibile aroma del pistacchio, in una consistenza fluida, morbida e setosa. L’aggiunta di pistacchio permette di ottenere un tenore di minerali come potassio, magnesio e fosforo davvero molto interessati, in grado di unire il gusto a un ricco profilo nutrizionale.

  • Crema di anacardi

 

 

La crema di anacardi rappresenta una buona fonte di proteine con un ottimo tenore di minerali. Il modesto tenore di fibre e un quantitativo di grassi inferiore rispetto a quello di altra frutta secca conferiscono alla crema di anacardi un gusto unico, per una consistenza cremosa, avvolgente e setosa, ideale per essere abbinata a qualsiasi preparazione, dolce e salata.

  • Crema di arachidi

 

 

La crema di arachidi rappresenta l’evoluzione del comune burro di arachidi: un tenore proteico di ben 33g/100g, un livello di acido linoleico di grandissimo interesse, con un tenore di fibra adatto a ottenere una consistenza morbida e cremosa, per un sapore inconfondibile, adatto a preparazioni dolci, salate o ai caratteristici abbinamenti dolce/salato caratteristici delle arachidi.

Frutta secca e benessere

La letteratura scientifica riporta una vasta gamma di potenziali applicazioni descritte in seguito al consumo di frutta secca, le principali potenzialità utili al benessere e alla prestazione vengono di seguito sinteticamente analizzate per definire in profondità cosa, alla luce delle conoscenze attuali, è ragionevole aspettarsi in seguito al consumo delle diverse tipologie di frutta secca e dei prodotti da esse derivati.

  • Mandorle

La letteratura scientifica conferma come il consumo di mandorle a partire da dosaggi di 30g/die sia correlato a una riduzione del colesterolo totale, delle LDL e dei trigliceridi [1]. Volendo studiare gli effetti del consumo di mandorle prima dell’esercizio (consumo in acuto) Esquius et. al hanno reclutato cinque soggetti maschi fisicamente attivi (età 32,9 ± 12,7 anni, altezza 178,5 ± 3,3 cm e peso 81,3 ± 9,7 kg). I soggetti sono stati assegnati in modo casuale a prendere 60g di mandorle o placebo 2 ore prima di partecipare a due sessioni di allenamento di ciclismo separate rispettivamente da un intervallo di 7-10 giorni. I risultati dimostrano come 60 g di mandorle assunte prima dell’esercizio aumentino gli acidi grassi non esterificati plasmatici del 30% e soprattutto migliorino la prestazione fisica del 20,6%, suggerendo che il consumo di mandorle potrebbe avere effetti positivi sulle prestazioni di endurance ad alta intensità [2].

Un ulteriore valutazione crossover (metà del gruppo di studio assume il prodotto da valutare e l’altra metà un prodotto di controllo nella prima fase, nella seconda le cose vengono invertite) effettuata da Yi et.al analizzando 8 ciclisti e 2 triatleti assegnati in modo casuale a consumare 75 g/giorno di mandorle intere  o una quota isocalorica di biscotti dimostra che il consumo per 4 settimane di 75 g/giorno ha migliorato la distanza a cronometro e i parametri relativi alla prestazioni di endurance, rispetto al consumo del prodotto di controllo. Gli autori ipotizzano come alcuni nutrienti/composti presenti nelle mandorle come l’arginina e la quercetina potrebbero contribuire a riservare e utilizzare più carboidrati e a favorire un utilizzo più efficace dell’ossigeno nella prestazione [3].

Molto interessante considerare quanto riportato da Kongerslev et. al. relativamente a prodotti ad alto livello di lavorazione come le bevande vegetali. Gli autori dopo aver riscontrato un basso livello proteico in molte di queste bevande, concludono che considerando le numerose lavorazioni e le frequenti fortificazioni e aggiunte di altri ingredienti, gli effetti descritti in letteratura scientifica per gli ingredienti di base come le mandorle non possono essere trasferiti direttamente alle bevande, ma devono essere studiati direttamente [4].

  • Nocciole

Il consumo di nocciole viene da tempo studiato in letteratura scientifica per i potenziali benefici dal punto di vista della salute cardiovascolare. Orem et al descrivono come 4 settimane di dieta dove le nocciole arrivano a rappresentare dal 18% -20% della quota energetica giornaliera siano correlate a una riduzione del colesterolo totale (-7,8%), dei trigliceridi (-7,3%), delle LDL (-6,17%) con un aumento delle HDL (+6,07%), con una riduzione nei livelli di ossidazione delle LDL, rispetto a una dieta di controllo isocalorica senza il consumo di nocciole. Questo suggerisce come una dieta arricchita di nocciole possa esercitare un effetto antiaterogeno migliorando la funzione endoteliale, prevenendo l’ossidazione delle LDL e i marcatori infiammatori, oltre alla riduzione ematica dei lipidi e delle lipoproteine [5].

Risultati che non devono far stupire in quanto Fraser già nel 1999 suggeriva come il consumo di nocciole sia associato a riduzione delle LDL e della pressione sanguigna considerato il buon contenuto di Vitamina E, Magnesio, Potassio e Arginina (aminoacido in grado di agire come precursore dell’ossido nitrico con effetti potenzialmente vasodilatatori), comportando una riduzione del rischio cardiovascolare [6]. Interessante notare, come descritto da Benedini et al., come la presenza di nocciole all’interno di uno snack commerciale correla con minori livelli di Grelina (ormone oressizzante, cioè che aumenta la ricerca e l’assunzione di cibo) [7].

  • Pistacchi e mandorle

Anche per i pistacchi, la letteratura scientifica conferma come il consumo di pistacchi a partire da dosaggi di 15-30g/die sia correlato a una riduzione del colesterolo totale, delle LDL e dei trigliceridi [1].

North et.al. descrivono come il consumo di 85g/giorno di pistacchi per due settimane è stato in grado di migliorare gli effetti in acuto dell’esercizio, portando a miglioramenti nei livelli di LDL nelle 72 ore dopo l’esercizio [8].

  • Anacardi

Anche il consumo di anacardi mostra effetti molto interessanti per quanto riguarda il controllo dell’appetito e della composizione corporea. Il Brazilian Nut Study riporta come il consumo di 30g di anacardi e 15g di noci del brasile per 8 settimane sia correlato in donne in sovrappeso a un decremento nei livelli di grelina (ormone oressizzante, cioè che aumenta la ricerca e l’assunzione di cibo) promuovendo una migliore sostenibilità della restrizione calorica [9] riportando inoltre significativi miglioramenti nella composizione corporea [10].

  • Arachidi

Anche il consumo di arachidi vede una vivace ricerca relativa agli effetti sulla salute e sulla prestazione. Liu et.al. descrivono come la somministrazione di peptidi derivati dalla lavorazione di proteine dell’arachide, sia correlata a un risparmio di glicogeno e a un incremento di acidi grassi liberi circolati, che i traducono in un prolungamento del tempo di nuoto degli animali presi in esame, dimostrando un significativo miglioramento nella resistenza all’esercizio [11].

Una successiva valutazione nell’uomo ha preso in considerazione 39 soggetti anziani; a 20 soggetti sono stati somministrati 30 g di proteine dell’arachide (pari a 315 315 kcal) in associazione a un programma di allenamento contro resistenza, mentre i restanti hanno seguito solamente il programma di allenamento consumando una dieta isocalorica rispetto all’altro gruppo. I risultati dimostrano come l’integrazione di proteine dell’arachide in associazione al programma di allenamento per un periodo compreso tra le 6 e le 10 settimane migliori in maniera significativa la forza e lo sviluppo muscolare (in particolare alcuni aspetti legati all’ipertrofia), rispetto al solo allenamento, suggerendo una prima conferma dell’utilità delle proteine da arachide nello sviluppo e adattamento muscolare [12].

Bibliografia

  • Guasch-Ferré M, Tessier AJ, Petersen KS, Sapp PA, Tapsell LC, Salas-Salvadó J, Ros E, Kris-Etherton PM. Effects of Nut Consumption on Blood Lipids and Lipoproteins: A Comprehensive Literature Update. 2023 Jan 23;15(3):596. doi: 10.3390/nu15030596. PMID: 36771303; PMCID: PMC9920334.
  • Esquius L, Segura R, Oviedo GR, Massip-Salcedo M, Javierre C. Effect of Almond Supplementation on Non-Esterified Fatty Acid Values and Exercise Performance. 2020 Feb 27;12(3):635. doi: 10.3390/nu12030635. PMID: 32121011; PMCID: PMC7146300.
  • Yi M, Fu J, Zhou L, Gao H, Fan C, Shao J, Xu B, Wang Q, Li J, Huang G, Lapsley K, Blumberg JB, Chen CY. The effect of almond consumption on elements of endurance exercise performance in trained athletes. J Int Soc Sports Nutr. 2014 May 11;11:18. doi: 10.1186/1550-2783-11-18. PMID: 24860277; PMCID: PMC4031978.
  • Thorning TK, Raben A, Tholstrup T, Soedamah-Muthu SS, Givens I, Astrup A. Milk and dairy products: good or bad for human health? An assessment of the totality of scientific evidence. Food Nutr Res. 2016 Nov 22;60:32527. doi: 10.3402/fnr.v60.32527. PMID: 27882862; PMCID: PMC5122229.
  • Orem A, Yucesan FB, Orem C, Akcan B, Kural BV, Alasalvar C, Shahidi F. Hazelnut-enriched diet improves cardiovascular risk biomarkers beyond a lipid-lowering effect in hypercholesterolemic subjects. J Clin Lipidol. 2013 Mar-Apr;7(2):123-31. doi: 10.1016/j.jacl.2012.10.005. Epub 2012 Oct 26. PMID: 23415431.
  • Fraser GE. Nut consumption, lipids, and risk of a coronary event. Clin Cardiol. 1999 Jul;22(7 Suppl):III11-5. doi: 10.1002/clc.4960221504. PMID: 10410300; PMCID: PMC6655570.
  • Benedini S, Codella R, Caumo A, Marangoni F, Luzi L. Different circulating ghrelin responses to isoglucidic snack food in healthy individuals. Horm Metab Res. 2011 Feb;43(2):135-40. doi: 10.1055/s-0030-1269900. Epub 2011 Jan 10. PMID: 21225542.
  • North E, Thayer I, Galloway S, Young Hong M, Hooshmand S, Liu C, Okamoto L, O’Neal T, Philpott J, Rayo VU, Witard OC, Kern M. Effects of short-term pistachio consumption before and throughout recovery from an intense exercise bout on cardiometabolic markers. Metabol Open. 2022 Oct 21;16:100216. doi: 10.1016/j.metop.2022.100216. PMID: 36337429; PMCID: PMC9627585.
  • Mayumi Usuda Prado Rocha D, Paula Silva Caldas A, Simões E Silva AC, Bressan J, Hermana Miranda Hermsdorff H. Nut-enriched energy restricted diet has potential to decrease hunger in women at cardiometabolic risk: a randomized controlled trial (Brazilian Nuts Study). Nutr Res. 2023 Jan;109:35-46. doi: 10.1016/j.nutres.2022.11.003. Epub 2022 Nov 26. PMID: 36577255.
  • Caldas APS, Rocha DMUP, Dionísio AP, Hermsdorff HHM, Bressan J. Brazil and cashew nuts intake improve body composition and endothelial health in women at cardiometabolic risk (Brazilian Nuts Study): a randomized controlled trial. Br J Nutr. 2022 Feb 23:1-38. doi: 10.1017/S000711452100475X. Epub ahead of print. PMID: 35193718.
  • Liu J, Chen LW, Ji KM, Yu L, Zhang ZJ. An endurance-enhancing effect of peanut meal protein hydrolysate in mice: possible involvement of a specific peanut peptide. J Anim Physiol Anim Nutr (Berl). 2014 Oct;98(5):830-7. doi: 10.1111/jpn.12140. Epub 2013 Oct 26. PMID: 24164258.
  • Lamb DA, Moore JH, Smith MA, Vann CG, Osburn SC, Ruple BA, Fox CD, Smith KS, Altonji OM, Power ZM, Cerovsky AE, Ross CO, Cao AT, Goodlett MD, Huggins KW, Fruge AD, Young KC, Roberts MD. The effects of resistance training with or without peanut protein supplementation on skeletal muscle and strength adaptations in older individuals. J Int Soc Sports Nutr. 2020 Dec 14;17(1):66. doi: 10.1186/s12970-020-00397-y. PMID: 33317565; PMCID: PMC7734909.

Anno nuovo: 3 step per iniziare a mangiare meglio

Gennaio è arrivato e con esso iniziano a fioccare le liste di buoni propositi per il nuovo anno: “mi iscriverò in palestra, sarò più positivo, inizierò un corso di cucina, chiamerò il mio amico che vive dall’altra parte del mondo, ecc.”

Ammettiamolo: tutti noi, chi più chi meno, scriviamo una lista di buoni propositi per il nuovo anno che, purtroppo, spesso non viene rispettata. In cima a questo elenco, generalmente, c’è sempre il proposito per eccellenza: “mi metterò a dieta”.

La maggior parte delle volte viene abbandonato entro i primi due mesi del nuovo anno, ma vi siete mai chiesti perché questo accade? Generalmente quando si decide di seguire una dieta a gennaio, complice il senso di colpa derivato dalle abbuffate delle festività, ci si impone un regime alimentare troppo “estremo” e troppo lontano da una alimentazione sostenibile.

Sul lungo termine il nostro organismo non può sostenere una dieta a base di “petto di pollo e insalata scondita” perché non è accettabile, né da un punto di vista nutrizionale né psicologico. In più, nella maggior parte dei casi, la perdita di peso è solo momentanea e i kg persi vengono recuperati in brevissimo tempo appena si allenta un attimo la presa.

Per ottenere risultati duraturi è quindi necessario che una dieta sana e bilanciata diventi parte integrante della nostra vita quotidiana e per fare ciò è necessario cambiare il proprio approccio al cibo: il cibo non deve essere visto come un nemico da combattere, ma come un alleato prezioso della nostra salute.

Una buona strategia per iniziare a seguire un regime alimentare sano ci viene suggerita dal blog della Harvard University, che illustra gli step fondamentali da seguire per iniziare a seguire una dieta regolare senza rinunciare al gusto:

1. Imparare a conoscere il cibo “vero”: è ormai noto che il consumo eccessivo di alimenti ultra-processati sia fra le cause di insorgenza di numerose patologie infiammatorie, malattie cardiache, diabete e alcune forme cancerose.

Se sei abituato a consumare cibo confezionato (che sia un intero pasto o una parte di esso) pensa a come potresti sostituire questi alimenti con qualcosa di più naturale e meno processato.
Ad esempio, sostituire pane e pasta tradizionali con la versione integrale, oppure provare ad alternare la quinoa al riso bianco.

Per gli snack – invece di una busta di patatine fritte e salate – si potrebbero fare dei ceci arrostiti oppure dei pop-corn in padella.
Seguire i principi della Dieta Mediterranea è sempre il modo più facile e corretto per realizzare piatti sani e bilanciati, combinando in maniera equilibrata verdure, legumi, frutta, cereali integrali, frutta secca e semi, pesce, pollame e prodotti caseari a basso contenuto di grasso (yogurt e formaggi magri).

2. Pianificare i pasti: pianificare gli orari in cui consumare i pasti principali (colazione, pranzo e cena) e gli eventuali snack (metà-mattina e metà-pomeriggio, se necessari) ci aiuta ad evitare di mangiare a qualsiasi ora del giorno e della notte.

Può essere utile impostare dei timer sul cellulare.

È fondamentale inoltre evitare di mangiare in orari in cui, secondo il nostro ritmo circadiano, dovremmo dormire. Il nostro organismo è regolato dai ritmi di sonno e veglia e se mangiamo in orari in cui dovremmo dormire (il classico spuntino di mezzanotte, per esempio) il nostro metabolismo non consumerà quell’energia perché per lui dovremmo essere a riposo.

3. Ridurre le porzioni: capita molto spesso di consumare porzioni di cibo evidentemente eccessive rispetto alle nostre necessità.

Pesare il cibo è sempre una buona pratica, ma se non è sempre possibile farlo ci sono altre tecniche utili:

  • Utilizzare un piatto di dimensioni più piccole: usando un piatto più piccolo saremo portati a prelevare una porzione di cibo più ridotta.
  • Non tenere piatti “da ripasso” sul tavolo: non avendo a disposizione altro cibo saremo meno tentati di prendere un’altra porzione.
  • Non attardarsi a tavola: rimanere seduti anche quando si è finito di mangiare la propria porzione ci porterà inevitabilmente a mangiare ancora, anche se siamo già pieni.

Un’altra cosa importante è conoscere il proprio fabbisogno calorico che ci permette di capire se stiamo mangiando troppo o troppo poco rispetto alle nostre necessità. Indicativamente – per capire il proprio fabbisogno calorico – si può considerare che il fabbisogno di una persona in salute, che svolge almeno mezz’ora di attività fisica al giorno, corrisponde circa al proprio peso (in libbre) moltiplicato per 15.

Questi step non devono essere incorporati nella nostra quotidianità tutti in una volta; si può iniziare inserendo un passaggio a settimana, all’interno della quale potrebbe essere prezioso annotare cosa si sta mangiando e gli eventuali pensieri o dubbi sul processo.
Dopo 7 giorni, è utile fare un bilancio di cosa ha funzionato e cosa no.

In questo modo, in poco tempo, si acquisirà sufficiente sicurezza e controllo per poter introdurre gli altri passaggi e in breve tempo mangiare in maniera equilibrata diventerà una sana abitudine e non più un obiettivo irraggiungibile.

Fonti e approfondimenti:

Dieta mediterranea: uno studio ne conferma il ruolo neuroprotettivo

Uno studio svolto su una campione di 47.000 donne svedesi, di età compresa tra i 29 e i 49 anni, sembra confermare gli effetti positivi, già noti, della dieta mediterranea sia su patologie neurodegenerative, come l’Alzheimer o il morbo di Parkinson, sia semplicemente sul declino cognitivo dovuto all’età avanzata.

Lo studio si basa sull’associazione tra l’adesione alla dieta mediterranea nelle donne di mezza età e il rischio di sviluppare la malattia di Parkinson in età avanzata.

Tra il 1991 e il 1992 è stato chiesto alle donne arruolate di compilare un questionario sul proprio stile di vita e sulle loro abitudini alimentari: in base a queste, è stata poi calcolata l’aderenza ai principi della dieta mediterranea.

I soggetti in esame sono stati poi seguiti nel tempo a partire dal compimento dei 50 anni di età.

Dall’analisi dei dati ottenuti è emerso che il rischio di sviluppare la malattia di Parkinson – tra le donne che seguivano un regime alimentare che si discostava molto da quello della dieta mediterranea – era doppio rispetto a quello delle donne che seguivano una dieta più vicina ai principi di quella mediterranea.

L’effetto si osserva prevalentemente a partire dai 60 anni e tende ad ampliarsi nel tempo: l’incidenza di malattia aumentava infatti molto più rapidamente dopo i 65 anni tra le donne con bassa aderenza alla dieta mediterranea rispetto alle donne con una aderenza medio-alta, fino ad essere circa tre volte maggiore (tra le prime rispetto alle seconde), all’età di 70 anni.

Nonostante persistano alcuni dubbi dovuti alla natura osservazionale dello studio, questi risultati sottolineano ancora una volta gli effetti positivi della dieta mediterranea sulle patologie neurodegenerative.

Nel 2010 l’UNESCO ha inserito la dieta mediterranea fra i patrimoni immateriali dell’umanità: questo a prova del fatto che la dieta mediterranea, più che un semplice elenco di alimenti, dovrebbe rappresentare un vero e proprio stile di vita.

Osservando il simbolo della dieta mediterranea, cioè la piramide alimentare, possiamo vedere che:

  • Si tratta di un regime basato prevalentemente su frutta, verdura e cereali integrali, che devono essere consumati quotidianamente. L’olio extravergine di oliva è il condimento per eccellenza (da consumare a crudo senza esagerare, 3-4 cucchiai al giorno), assieme ad aglio, cipolla, spezie ed erbe aromatiche, da utilizzare in abbondanza al posto del sale.
  • Verso il centro della piramide ci sono gli alimenti da consumare settimanalmente: tra questi troviamo alimenti prevalentemente proteici, come il pesce e i legumi, di cui si dovrebbero consumare almeno due porzioni a settimana ciascuno, il pollo e le carni avicole (2-3 porzioni), le uova (1-4 a settimana) e i formaggi da consumare non più di un paio di volte a settimana (le porzioni dovrebbero essere da 100g per i formaggi freschi, 50g invece se sono stagionati).
  • Al vertice della piramide ci sono infine gli alimenti da consumare saltuariamente: due porzioni o meno a settimana per le carni rosse, le carni processate (come affettati e salumi) sarebbero da consumare con ancora più parsimonia al massimo una porzione a settimana, mentre i dolci andrebbero consumati solo saltuariamente.

Gli effetti benefici attribuibili alla dieta mediterranea sono probabilmente da imputare all’azione dei numerosi antiossidanti e antinfiammatori naturali presenti all’interno degli alimenti alla base di questo modello dietetico, che rimane uno tra i principali pilastri nella prevenzione del declino cognitivo, delle malattie neurodegenerative e di numerose altre patologie.

Fonti e approfondimenti:

Yin W, Löf M, Pedersen NL, Sandin S, Fang F. Mediterranean Dietary Pattern at Middle Age and Risk of Parkinson’s Disease: A Swedish Cohort Study. Mov Disord. 2020 Oct 20. doi: 10.1002/mds.28314. Epub ahead of print. PMID: 33078857.

http://www.nutrition-foundation.it/notizie/dieta-mediterranea-e-malattia-di-parkinson–uno-studio-di-coorte-conferma-il-ruolo-neuroprotettivo-del-modello-mediterraneo.aspx

https://www.fondazioneveronesi.it/magazine/articoli/alimentazione/dieta-mediterranea-una-piramide-di-salute

Circa 2/3 delle morti per patologie cardiache si potrebbero evitare con una dieta sana: uno studio

In occasione del World Food Day 2020, che cade il 16 di Ottobre di ogni anno e che rappresenta l’anniversario della fondazione della FAO (Organizzazione delle Nazioni Unite per l’alimentazione e l’agricoltura), un gruppo di ricercatori provenienti da diverse università del mondo (Cina, Israele, USA e Canada) ha presentato un report basato sui dati del Global Burden of Disease Study del 2017, il rapporto globale sullo stato di salute del mondo.

I dati raccolti hanno permesso di capire che se si riuscisse ad ottenere un generale miglioramento della dieta a livello globale si riuscirebbero ad evitare circa sei milioni di morti ogni anno!

Pare infatti che più di due terzi dei decessi attribuibili a malattie cardiache potrebbero essere scongiurati se ci si limitasse ad evitare di consumare eccessive quantità di junk-food ultra-processato e, in generale, a mangiare meglio: pressione sanguigna elevata, colesterolo alto e dieta sbagliata sono infatti fra le principali cause di morte per infarti, angine e patologie coronariche.

Nel 2017 nel mondo c’erano 126,5 milioni di persone con una storia clinica di malattie cardiache alle spalle, nello stesso anno inoltre si sono verificati 10,6 milioni nuovi casi con circa 8,9 milioni di decessi, che hanno rappresentato il 16% delle morti totali di quell’anno, contro il 12,6% del 1990.

Per effettuare una valutazione il più accurata possibile i ricercatori hanno preso in considerazione 11 principali fattori di rischio per patologie cardiache fra cui: la dieta, il colesterolo totale elevato, LDL alte (il cosiddetto “colesterolo cattivo”), alti livelli di glucosio nel sangue (glicemia alta), fumo, consumo di alcolici ed elevato indice di massa corporea e hanno calcolato quante morti si sarebbero potute evitare se fossero state eliminate ognuna di queste cause.

È risultato che il 69,2% delle morti si sarebbe potuto evitare anche solo adottando un regime alimentare sano e bilanciato, lasciando inalterate tutte le altre variabili.

Infatti, la diminuzione della mortalità per patologie cardiovascolari sarebbe scesa del 54,4% se la pressione fosse mantenuta tra i 110 e i 115 mmHg, del 41,9% i livelli di LDL fosse entro i limiti, del 25,5% se la glicemia rimanesse entro i limiti e del 18,3% (nelle donne) se l’indice di massa corporea si fosse mantenuto tra 20 e 25.

I risultati suggeriscono quindi che le cardiopatie ischemiche siano ancora una delle principali sfide per la salute pubblica in tutto il mondo e che sia assolutamente necessario attuare interventi efficaci per affrontare i fattori di rischio modificabili, in particolare in quelle aree geografiche con carichi elevati o in aumento: bisogna ideare programmi che tengano conto delle criticità specifiche di ogni paese, della disponibilità di cibo e risorse di ogni stato, stimolando al tempo stesso tutti a una vita più sana con meno alcol, meno fumo e più attività fisica.

Xinyao Liu della Central South University di Changsha, una delle autrici dello studio, ha detto che: “si dovrebbero assumere tra i 200 e i 300 mg di acidi grassi omega-3 provenienti da pesce ogni giorno, tra i 200 e i 300 g di frutta e tra i 290 e i 430 g di verdure fresche, tra i 16 e i 25 g di frutta secca e tra i 100 e i 150 g di cereali integrali. Ciò significa che dovremmo ridurre drasticamente le bevande dolci, i grassi saturi e quelli trans, gli zuccheri e il sale aggiunti, evitando gli alimenti processati, pieni di tutte queste cose”.

 

Fonti e approfondimenti:

Haijiang Dai, Arsalan Abu Much, Elad Maor, Elad Asher, Arwa Younis, Yawen Xu, Yao Lu, Xinyao Liu, Jingxian Shu, Nicola Luigi Bragazzi, Global, regional, and national burden of ischaemic heart disease and its attributable risk factors, 1990–2017: results from the Global Burden of Disease Study 2017, European Heart Journal – Quality of Care and Clinical Outcomes, qcaa076, https://doi.org/10.1093/ehjqcco/qcaa076

http://www.fao.org/world-food-day/theme/it/

Il consumo di alimenti ultra-processati favorisce l’invecchiamento precoce: uno studio

C’è una relazione piuttosto stretta tra invecchiamento cellulare precoce e consumo di alimenti ultra-processati: questo è quello che è emerso da uno studio pubblicato sull’American Journal of Clinical Nutrition e condotto da un team di ricercatori spagnoli dell’Università di Navarra, Pamplona e Madrid i cui risultati sono stati presentati all’European and International Congress on Obesity (Congresso europeo e internazionale dell’obesità) che si è tenuto dall’1 al 4 settembre.

Ma cosa sono i cibi ultra-processati?

Secondo la classificazione degli alimenti NOVA gli alimenti che acquistiamo possono essere divisi in quattro gruppi, da quelli non trasformati a quelli ultra-trasformati, in base a caratteristiche ben definite:

  1. Alimenti non trasformati o minimamente trasformati (Gruppo 1): questo gruppo include frutta, verdura, noci, semi, cereali, fagioli, legumi e prodotti animali naturali come uova, pesce e latte. Sono alimenti che possono subire dei processi di trasformazione (essiccati, tritati, arrostiti, congelati, bolliti o pastorizzati) ma non contengono ingredienti aggiunti.
  2. Ingredienti culinari lavorati (Gruppo 2): questo gruppo include oli, grassi come burro, aceto, zuccheri e sale. Questi alimenti non sono pensati per essere mangiati da soli, ma di solito vengono consumati di associazione con gli alimenti appartenenti al gruppo uno.
  3. Alimenti trasformati (Gruppo 3): a questo gruppo appartengono alimenti che vengono solitamente realizzati utilizzando una miscela di ingredienti dei gruppi uno e due. Includono salumi, insaccati, formaggi, pane fresco, noci salate o zuccherate, frutta in scatola sciroppata, birra e vino. Lo scopo principale della lavorazione è prolungare la vita del cibo o migliorarne il gusto.
  4. Prodotti alimentari e bevande ultra-processati (Gruppo 4): gli alimenti ultra-processati di solito contengono ingredienti che non aggiungeresti quando cucini in casa. In generale è piuttosto difficile riconoscere i nomi di questi ingredienti poiché spesso si tratta di sostanze chimiche, coloranti, dolcificanti e conservanti. Sono caratterizzati da una lista di ingredienti molto lunga, sono pronti per il consumo, hanno date di scadenza lunghe e, in genere, sono molto saporiti.

Secondo i risultati della ricerca, chi consuma più di 3 porzioni al giorno di cibo ultra-processato ha una probabilità doppia di avere telomeri più corti.

Cosa sono i telomeri?

Sono una sorta di “casco di sicurezza” che si trova all’estremità dei cromosomi: sono materiale genetico “neutro”, che non codifica per nessuna funzione, ma che è indispensabile per mantenere l’integrità dei cromosomi. Nel corso delle varie replicazioni cellulari i telomeri si accorciano; è una cosa fisiologica che va di pari passo con l’invecchiamento cellulare e fisico, ma secondo i risultati dello studio un consumo eccessivo di cibi ultra-processati sembra velocizzare questo processo.

I ricercatori hanno analizzato il DNA presente nei campioni di saliva forniti da 645 uomini e 241 donne, di età media 67-68 anni. Oltre a questo, alle persone era stato chiesto di registrare accuratamente quale e quanto cibo industriale assumessero quotidianamente.

In base al consumo di prodotti ultra-processati gli autori hanno diviso i soggetti in esame in quattro 4 gruppi: basso consumo di cibo ultra-lavorato (meno di 2 porzioni al giorno), consumo medio-basso (da 2 a 2,5 porzioni al giorno), consumo medio-alto (da più di 2,5 a 3 porzioni al giorno) e consumo alto (più di 3 porzioni quotidiane).

Secondo i risultati ottenuti:

  • Nei soggetti che consumavano quantità elevate di cibi ultra-processati era più alta la probabilità di manifestare depressione, ipertensione, sovrappeso o obesità e in generale di mortalità per tutte le cause.

  • Nel gruppo a consumo maggiore era più elevata la probabilità di una storia familiare di malattie cardiovascolari, diabete e grassi in eccesso nel sangue.

  • Gli appartenenti a questo gruppo avevano più degli altri l’abitudine di fare spuntini tra un pasto e l’altro, consumare più grassi, sodio, colesterolo, cibo da fast food e carni lavorate e, contemporaneamente, assumere meno carboidrati, proteine, fibre, olio d’oliva, frutta, verdura e altri micronutrienti.

  • Chi consumava più prodotti ultra-processati aveva una probabilità ridotta di aderire alla dieta mediterranea.

  • Ultimo, ma non meno importante: il rischio di accorciamento precoce dei telomeri aumentava notevolmente con l’aumento del consumo di cibo molto industrializzato. Infatti, passando da un consumo basso a un consumo medio-basso il rischio aumentava del 29%; da un consumo medio-basso a un consumo medio-alto il rischio era del 40% e, infine, dal consumo medio-alto al consumo alto il rischio arrivava all’82%.

In conclusione: nonostante siano necessarie ulteriori evidenze per confermare questa attività dei telomeri, questo studio si somma ad altri innumerevoli studi che confermano gli effetti dannosi dei cibi ultra-processati sulla salute.

Malgrado la praticità di preparazione e il gusto sicuramente gradevole (dovuto quasi sempre ad un contenuto elevato di sale, grassi e zuccheri), i cibi ultra-processati possono considerarsi vantaggiosi solo per chi li produce e li vende, poiché il loro consumo eccessivo nel corso degli anni è stato associato all’insorgenza di numerose patologie croniche: ipertensione, obesità, sindrome metabolica, depressione, diabete di tipo 2 e diversi tipi di cancro.

Consumare cibi freschi, poco elaborati e prediligere le preparazioni casalinghe a quelle già pronte ed eccessivamente industrializzate, il tutto unito ad un generale stile di vita sano e attivo, si conferma essere il modo migliore per preservare il proprio stato di salute!

Fonti e approfondimenti:

https://www.repubblica.it/salute/medicina-e-ricerca/2020/09/01/news/con_gli_alimenti_ultraprocessati_si_invecchia_prima-265965061/?rss

https://www.bbc.co.uk/food/articles/what_is_ultra-processed_food

https://world.openfoodfacts.org/nova

 

La riduzione del sodio nell’alimentazione ha effetti benefici sulla microflora intestinale: uno studio

Una dieta ricca di sodio può alterare in maniera negativa il microbioma intestinale.

Questo è quello che è emerso da un recente studio, svoltosi su modello umano, pubblicato dai ricercatori del Georgia Prevention Institute sulla rivista Hypertension.

Il microbiota intestinale è costituito da tutti i batteri, virus, protozoi e funghi che popolano il tratto gastrointestinale: hanno una ampia gamma di funzioni che vanno dalla digestione del cibo alla risposta immunitaria, fino ad influenzare la propensione o meno ad aumentare di peso. I problemi del microbiota sono associati all’insorgenza di diverse malattie, dai problemi gastrointestinali alle allergie, fino ad alcune forme di cancro.

Mentre solitamente per determinare la composizione del microbioma si esegue un esame genetico delle feci, in questo caso sono invece si prendono in considerazione gli acidi grassi a catena corta (SCFA) che sono il principale metabolita di origine microbica; il loro livello ematico può quindi essere considerato un indicatore della salute del microbioma intestinale.

Lo studio è randomizzato (ad ogni individuo dello studio è assegnato in modo casuale uno fra i trattamenti in studio oppure il placebo), incrociato (ogni partecipante riceve/non riceve un trattamento in una sequenza temporale), in doppio cieco (per evitare di influenzare i risultati, né i pazienti ne gli sperimentatori sono a conoscenza di come e a chi siano stati assegnati il trattamento e/o il placebo), controllato con placebo (sostanza inattiva, non tossica, somministrata nella forma e nei modi della sostanza in esame di confronto).

Questo studio, della durata di 6 settimane, ha avuto come scopo quello di testare l’ipotesi che una riduzione dell’assunzione di sodio possa contribuire ad alterare le concentrazioni circolanti di SCFA nei soggetti ipertesi non trattati e che questi cambiamenti possano portare ad una riduzione della pressione sanguigna e al miglioramento dei fenotipi cardiovascolari.

La dott.ssa Haidong Zhu, genetista molecolare del Georgia Prevention Institute presso il Medical College of Georgia dell’Università di Augusta, ha affermato che “esiste una connessione” fra lo stato di salute del microbioma intestinale e la regolazione della pressione arteriosa; una dieta particolarmente salata come quella americana, quindi, può interferire con una vita sana.

Gli SCFA, infatti, sono coinvolti nella regolazione della pressione sanguigna: questi piccoli metaboliti si legano ad alcuni recettori presenti sul rivestimento dei vasi sanguigni e nei reni giocando un ruolo importante nel controllo della pressione sanguigna.

Nella sperimentazione sono state incluse 145 persone appartenenti ad entrambi i sessi, di diverse etnie ed età (comprese tra i 30 e i 75), accomunate però dal fatto di avere la pressione troppo alta, e di non essere mai state sottoposte ad alcun trattamento specifico.

I partecipanti sono stati suddivisi in due gruppi: a uno è stato somministrato sodio attraverso una pastiglia da assumere nove volte al giorno, all’altro un placebo nella stessa forma. Questo è stato preceduto da un’adeguata formazione di due settimane, svolta da infermieri, sugli accorgimenti da adottare per ridurre la quantità di sodio assunta fino a 2 g al giorno, che sono stati ribaditi per tutto il corso dello studio.

L’obiettivo era fare in modo che il gruppo di trattamento raggiungesse una concentrazione di sodio di 2,3 g, ossia la quantità considerata ottimale dall’American Heart Association, che è di molto inferiore a quella media assunta dalla popolazione americana, che si aggira attorno ai 3,4 g.

In seguito alla profilatura post trattamento si è potuto notare che la riduzione del sodio ha portato ad un aumento di tutti e 8 gli SCFA.

A questo risultato si è aggiunto che un aumento degli SCFA è stato associato anche ad una riduzione della pressione sanguigna e al miglioramento dell’elasticità dei vasi sanguigni.

Un esempio pratico di questo miglioramento: la pressione nelle 24 ore è risultata diminuita in media di 5 punti, un effetto assai significativo per chi deve tenerla sotto controllo, e lo stesso si è visto per quella notturna, scesa di 5 (quella sistolica) e 3 punti (quella diastolica) nelle donne, e di circa tre punti nei maschi per entrambi i valori.

Un altro dato interessante è che sono state evidenziate delle risposte differenti in relazione al sesso dei soggetti in esame: il miglioramento è risultato, infatti, più accentuato nelle donne che negli uomini. Secondo Zhu questo potrebbe essere dovuto al fatto che la pressione sanguigna sia influenzata attraverso pathway diversi nei maschi e nelle femmine e che il consumo di sale influisca in maniera differente.

Questi risultati mostrano quindi che la riduzione del sodio nella dieta aumenta effettivamente gli SCFA circolanti, sostenendo l’ipotesi che il consumo di quantità più o meno elevate di sodio con dieta possa influenzare il microbioma intestinale nell’uomo e che esiste una differenza sessuale nella risposta SCFA alla riduzione del sodio. Inoltre, un aumento degli SCFA è effettivamente associato alla riduzione della pressione sanguigna e al miglioramento della compliance arteriosa.

Questa ricerca ha gettato le basi per proseguire con gli studi sull’uomo, con lo scopo di condurre un’indagine più ampia nel quale verranno misurate anche direttamente la composizione del microbioma dalle feci in seguito alle diverse diete.

Se i risultati dovessero essere confermati anche sull’uomo (visto che sui modelli animali è già stato dimostrato), ci sarebbero ulteriori motivi per consigliare preventivamente una dieta a basso contenuto di sale a chi soffre di ipertensione, prima di ricorrere alle terapie farmacologiche.

Fonti e approfondimenti:

Li Chen, Feng J. He, Yanbin Dong, Ying Huang, Changqiong Wang, Gregory A. Harshfield, Haidong Zhu; Modest Sodium Reduction Increases Circulating Short-Chain Fatty Acids in Untreated Hypertensives; Hypertension. 2020;76:73–79

https://it.wikipedia.org/wiki/Studio_clinico

www.ahajournals.org/doi/full/10.1161/HYPERTENSIONAHA.120.14800

www.fondazioneveronesi.it/magazine/articoli/lesperto-risponde/microbiota-intestinale-in-che-modo-puo-influenzare-la-salute

www.ilfattoalimentare.it/sale-microbiota-sodio.html

 

 

Linee guida sulla sana alimentazione: False credenze sull’acqua

Arriva puntuale come l’estate: è il classico consiglio della nonna che ti ricorda di “bere tanta acqua”, per mantenersi idratati.

Nonostante sembri ormai una frase fatta che ci sentiamo ripetere continuamente, si tratta di un consiglio sempre attuale: l’acqua è infatti un bene prezioso, essenziale per la vita e per mantenersi in salute non solo d’estate, ma tutto l’anno.

È il costituente principale di tutti gli organismi viventi e la sua presenza è indispensabile per il normale svolgimento di tutti i naturali processi fisiologici e biochimici e per tutte le funzioni dell’organismo umano:

  • Interviene nell’assorbimento ed escrezione di molte sostanze;
  • Agisce come “lubrificante”;
  • Ha funzioni di trasporto;
  • Funge da ammortizzatore per le articolazioni;
  • Mantiene elastiche e compatte pelle, mucose e tessuti;
  • Garantisce la giusta consistenza del contenuto intestinale;
  • Rende possibili gli scambi respiratori;
  • E’ essenziale nel processo di termoregolazione (sudorazione);
  • E’ essenziale per il mantenimento del pH (equilibrio tra sostanze acidi e basiche) nei diversi distretti dell’organismo;
  • E molte altre.

Anche nel caso dell’acqua circolano molti falsi miti e fake news attraverso i canali di informazione che il CREA (Centro di ricerca alimenti e nutrizione) ha cercato di sfatare attraverso le Linee guida per una sana alimentazione.

Di seguito le più comuni:

Non è vero che l’acqua debba essere bevuta al di fuori dei pasti.

Quando si beve una quantità eccessiva di acqua nel corso del pasto il massimo che può succedere è che, per una diluizione dei succhi gastrici, si allunghino di un poco i tempi della digestione. Al contrario, l’assunzione di una adeguata quantità d’acqua consumata durante il pasto (che corrisponde a circa 600-700 ml) è utile per migliorare la consistenza e la diluizione degli alimenti ingeriti favorendo così digestione ed assorbimento.

Non è vero che l’acqua faccia ingrassare.

L’acqua non ha calorie, le variazioni di peso che si registrano in seguito all’assunzione o espulsione di acqua sono solo momentanee e ingannevoli.

Non è vero che bere molta acqua provochi maggiore ritenzione idrica.

La ritenzione idrica, quando non dovuta a particolari patologie, dipende dal sale o da altre sostanze contenute negli alimenti, non dall’acqua assunta.

Non è vero che per mantenere la linea si debbano prediligere le acque oligominerali rispetto alle acque maggiormente mineralizzate.

I sali contenuti nell’acqua e l’acqua stessa, al contrario, favoriscono l’eliminazione dei sali contenuti in eccesso nell’organismo.

Non è vero che il calcio presente nell’acqua non sia assorbito dal nostro organismo.

La capacità dell’intestino di assorbire il calcio contenuto nell’acqua è simile a quella del calcio contenuto nel latte e nei prodotti lattiero-caseari.

Non è vero che il calcio presente nell’acqua favorisca la formazione di calcoli renali.

Le persone predisposte a formare questo tipo di calcoli devono bere abbondantemente e ripetutamente nel corso della giornata, senza temere che il calcio contenuto nell’acqua possa favorire la formazione dei calcoli stessi: anzi, le acque minerali ricche di calcio possono costituire al riguardo un fattore protettivo.

Non è vero che l’acqua gassata faccia male.

L’anidride carbonica presente sia nelle acque naturalmente gassate – sia in quelle in cui è aggiunta -migliora la conservabilità del prodotto. Quando la quantità di gas è molto elevata, alcuni individui possono presentare qualche lieve sintomo dovuto a preesistenti disturbi gastrici e/o intestinali oppure al temporaneo aumento di pressione a livello dell’apparato gastrointestinale.

Non è vero che bere acqua fredda faccia male.             

Anzi, quando è caldo dona anche un senso di piacere; l’importante è berla lentamente per evitare congestioni.

Non è vero che uno o due bicchieri di acqua tiepida bevuti a digiuno purifichino l’organismo.

Non arrecano sicuramente danno ed entrano nel bilancio idrico dell’organismo, ma non esistono solide evidenze scientifiche a favore dell’effetto depurativo di questa pratica.

Non è vero che le acque a basso contenuto di sodio siano utili per chi soffre di ipertensione.

La quantità di sodio contenuta nell’acqua è talmente bassa che la sua assunzione è pressoché irrilevante per la salute.

Non è vero che si perde acqua solo quando fa molto caldo.     

Quando fa molto freddo l’aria che inspiriamo è particolarmente secca, tuttavia noi espiriamo comunque aria umida, quindi perdiamo comunque acqua attraverso la respirazione.

Fonti e approfondimenti:

www.crea.gov.it/web/alimenti-e-nutrizione/-/linee-guida-per-una-sana-alimentazione-2018

Effetti di salute di diete vegetariane a confronto con diete onnivore: una revisione.

Dieta vegetariana o vegana?

Gli effetti benefici di questi due tipi di dieta sono un argomento di dibattito molto attuale, sia all’interno della comunità scientifica che nei canali di informazione non specializzati come riviste, quotidiani e televisione.

Nella maggior parte dei casi l’oggetto principale del dibattito è il confronto fra gli effetti sulla salute di questo tipo di scelte alimentari con quelli delle diete onnivore, che includono quindi alimenti di origine animale, come le carni e i derivati (latticini e uova).

Un gruppo di studio ha pubblicato, sul Clinical Nutrition Journal, una interessante revisione che analizza tutte le metanalisi, ovvero le pubblicazioni che combinano i risultati di studi che hanno analizzato quesiti simili per aumentare la numerosità del campione, e le revisioni sistematiche disponibili in letteratura che hanno studiato l’associazione tra dieta vegetariana ed effetti sulla salute.

Sono stati presi in considerazione gli effetti dei vari modelli di dieta vegetariana (dai più “flessibili” fino alla dieta vegana vera e propria) solo su alcuni fattori di rischio o su patologie specifiche, senza prendere in esame gli effetti sull’ambiente di queste scelte alimentari. I risultati mostrano che il profilo di effetti delle diete valutate è piuttosto variegato.

Da un lato si confermano alcuni effetti benefici associati all’adozione di un regime alimentare vegano/vegetariano, cioè:

  • Miglioramento del profilo lipidico e lipoproteico rispetto alle diete onnivore: valori di colesterolemia, sia totale sia legata alle LDL (il cosiddetto “colesterolo cattivo”);
  • Maggiore controllo dell’obesità, ma non dei marker infiammatori.

È emerso invece che chi esclude alimenti di origine animale ha un più basso apporto di ferro e zinco e di vitamina B12, con livelli più elevati dell’omocisteina plasmatica. Inoltre, la riduzione della colesterolemia si estende anche al colesterolo HDL, il cosiddetto “colesterolo buono”, cui si attribuisce in genere un effetto protettivo anti-aterosclerotico.

Facendo un’analisi complessiva sembra effettivamente che le diete vegetariane siano associate ad una riduzione significativa di circa l’11% degli eventi complessivi sfavorevoli di salute, se confrontati con le diete onnivore.

La cosa sorprendente che emerge da questa revisione, però, è che questa differenza è tuttavia dovuta principalmente al contributo della dieta degli Avventisti del Settimo Giorno (un relativamente recente movimento religioso cristiano), correlata ad una riduzione degli stessi eventi del 28% circa.

Il regime alimentare degli avventisti segue i principi della dieta vegetariana – consente quindi il consumo di latte, derivati del latte e uova – ed è caratterizzato dalla forte promozione di uno stile di vita fisicamente molto attivo che prevede inoltre anche la totale astensione da fumo e alcool.

Se si elimina il contributo di questa dieta, le rimanenti diete classificate come vegetariane hanno effetti solo marginalmente migliori rispetto alle diete onnivore, con una riduzione del rischio di effetti sfavorevoli di salute pari al 3% circa, una differenza quindi non significativa.

Più nello specifico, escludendo dalla valutazione gli studi riguardanti gli Avventisti del Settimo Giorno, gli unici parametri che migliorerebbero seguendo le altre tipologie di diete vegetariane sarebbero associati ad un minor rischio di sviluppare malattie ischemiche del cuore o la malattia diabetica.

L’incidenza complessiva dei tumori sarebbe più bassa, ma non la mortalità per queste patologie, e nessuna correlazione significativa si osserverebbe invece con le malattie cerebrovascolari e con alcune neoplasie ad elevata incidenza (cancro colo-rettale, cancro della mammella, della prostata e dei polmoni), o sulla mortalità per qualunque causa. Sfavorevole sembra invece essere l’effetto delle diete vegane sulla densità ossea.

Secondo i risultati ottenuti da questa revisione sembra quindi che le diete vegetariane troppo rigide siano in realtà associate solo ad un modesto miglioramento dello stato di salute rispetto a quelle onnivore.

L’analisi degli studi relativi alla dieta seguita dagli Avventisti del Settimo Giorno ha messo in luce che in questa comunità il regime alimentare vegetariano era strettamente associato anche all’eliminazione di molti altri fattori di rischio di tipo “non alimentare” (fumo e alcool): questo sicuramente influisce sugli effetti favorevoli che questa dieta ha sullo stato di salute.

Parte di queste differenze, secondo gli autori, sarebbe ascrivibile alle differenze nel microbiota intestinale (ovvero l’insieme di tutte le circa 500 specie di batteri che “abitano” all’interno del nostro apparato digerente) indotte dalle diete ad alto o a basso tenore di fibra o di composti specifici (come la carnitina, la colina, ecc.).

Queste osservazioni evidenziano quindi la limitata utilità della differenziazione tra diete onnivore e diete vegetariane nell’identificare il pattern dietetico caratterizzato dei migliori effetti di salute.

Appare ragionevole immaginare quindi che una dieta basata prevalentemente su alimenti di origine vegetale, ma integrata da quantità moderate di alimenti di origine animale (le cosiddette diete flexitariane), e associata ad uno stile di vita salutare, possa rappresentare il modello di riferimento da promuovere.

Fonti e approfondimenti:

Oussalah A, Levy J, Berthezène C, Alpers DH, Guéant JL; Health outcomes associated with vegetarian diets: An umbrella review of systematic reviews and meta-analyses; Clin Nutr.2020; S0261-5614(20)30101-1.

http://www.nutrition-foundation.it/notizie/effetti-di-salute-di-diete-vegetariane-a-confronto-con-diete-onnivore-i-risultati-di-una-umbrella-review.aspx

www.focus.it/scienza/salute/che-cose-il-microbiota-spy

 

Linee guida sulla sana alimentazione: False credenze sulla varietà dell’alimentazione

Quando si parla di sana alimentazione la parola chiave è “variare”, ma cosa significa avere un’alimentazione varia? E perché è così importante variare la propria dieta?

Gli alimenti, oltre ad assicurarci il giusto apporto energetico, servono anche per fornirci alcuni nutrienti indispensabili per la salute dell’organismo come amminoacidi e acidi grassi essenziali, vitamine, minerali, fibre, acqua, ecc.

È fondamentale, innanzitutto, capire che non esiste un alimento “miracoloso” e completo che contenga al suo interno tutto ciò di cui abbiamo bisogno per vivere bene e in salute.

Per questo motivo quando si parla di alimentazione bilanciata ci si focalizza sull’importanza di combinare alimenti provenienti da diversi gruppi:

  1. Cereali (e derivati) e tuberi;

  2. Frutta e verdura;

  3. Carne, pesce, uova, legumi;

  4. Latte (e derivati);

  5. Grassi da condimento.

Ciascun alimento ha le sue peculiari caratteristiche nutrizionali e, imparando a combinarli nei modi e nelle porzioni giuste, sono in grado di assicurarci il giusto apporto di nutrienti, rimanendo allo stesso tempo all’interno di un apporto energetico adeguato alle nostre necessità e al nostro stile di vita.

Variare la propria alimentazione significa quindi fare scelte che permettano di costruire uno stile di vita alimentare completo ed equilibrato, in grado di portare benefici psico-fisici in generale, diversificando i sapori, evitando la monotonia e allo stesso tempo prevenendo squilibri nutrizionali.

Come già precedentemente fatto per il peso corporeo, in questo articolo utilizzeremo le parole degli esperti del CREA, riportate nelle Linee guida per una sana alimentazione, per sfatare alcuni falsi miti sull’alimentazione variegata:

  1. Non è vero che per dimagrire è necessario eliminare uno o più gruppi alimentari.

Per dimagrire è necessario seguire un regime dietetico ipocalorico (ovvero introdurre meno calorie di quelle di cui necessita il nostro corpo in modo da stimolarlo a consumare le riserve di grasso accumulato proprio per questo scopo) assonato all’attività fisica e un regime ipocalorico di per sé non prevede l’eliminazione di un qualche tipo di alimento o nutriente in particolare, ma prevalentemente una riduzione delle porzioni.

  1. Non è vero che dobbiamo sottovalutare la pausa pranzo.

Il pranzo è un pasto fondamentale e non è sufficiente consumare velocemente una barretta o un frutto davanti alla scrivania per avere l’energia sufficiente ad affrontare il resto della giornata fino ad arrivare alla cena. Se non si dispone di una mensa è importante trovare un luogo alternativo che ci permetta di muovere qualche passo per raggiungerlo, per allontanarsi dallo schermo e dalla scrivania, e di consumare il proprio pasto in compagnia in un ambiente rilassante e piacevole.

  1. Non è sempre vero che avere tanti alimenti a disposizione sia sempre un aspetto positivo.

Variare significa sostituire, non aggiungere. A volte capita infatti che avere una grande varietà di alimenti a disposizione ci porti a mangiare di più e a scegliere i cibi che danno maggior appagamento, che spesso non corrispondono a quelli più “sani”. Importante fare attenzione alle porzioni e tenere i propri pasti sotto controllo.

  1. Non è vero che il modello della Dieta Mediterranea è un modello alimentare superato.

Sono infatti moltissimi gli studi che sostengono questo modello alimentare sia per via dell’apporto bilanciato di nutrienti che per la capacità di prevenire moltissime patologie cronico degenerative. Anche la Dieta Mediterranea prevede il controllo delle porzioni e nonostante adesso lo stile di vita della maggior parte delle persone sia molto frenetico e preveda spesso pasti fuori casa è comunque possibile continuare a seguire questo regime alimentare facendo attenzione a fare le scelte giuste anche al ristorante.

  1. Non è vero che si ingrassa o dimagrisce in un giorno o in una settimana.

Il peso ottimale è il risultato del mantenimento costante di abitudini alimentari corrette. Gli eccessi occasionali rientrano nella norma perché, oltre alla salute fisica, l’alimentazione deve rispettare anche la gratificazione, la convivialità, i rapporti sociali e il benessere psicologico. L’importante è saper bilanciare gli eccessi nei giorni o nei pasti successivi.

Fonti e approfondimenti:

www.crea.gov.it/web/alimenti-e-nutrizione/-/linee-guida-per-una-sana-alimentazione-2018

Attenzione al sale “nascosto”

È ormai risaputo un consumo eccessivo e prolungato di sale (il cui nome scientifico è cloruro di sodio) rappresenti un fattore di rischio per moltissime patologie, come l’ipertensione arteriosa e conseguenti danni al sistema cardiocircolatorio, cancro allo stomaco ed eccessiva escrezione di calcio tramite le urine, che sul lungo termine porta all’insorgenza di osteoporosi.

Il sapore e gli effetti sulla salute dati dal consumo di sale sono da imputare prevalentemente al sodio in esso contenuto: 1 g di sale infatti contiene 0,4 g di sodio.

Nonostante il sale abbia giocato per secoli un ruolo fondamentale nella sopravvivenza ed evoluzione della razza umana (basti pensare alla conservazione dei cibi), l’essere umano in condizioni fisiologiche non ha nessuna necessità di integrare sodio.

Il nostro fabbisogno giornaliero di sodio è, infatti, 0,1-0,6 g, sostanzialmente quello contenuto in un 1 g di sale (la punta di un cucchiaino) che, tuttavia, corrisponde a quello già naturalmente contenuto negli alimenti.

Di conseguenza, tranne in condizioni particolari come estrema sudorazione o in caso di patologie che comportano elevata perdita di liquidi o escrezione di sodio, aggiungere sale agli alimenti non serve se non per dargli più gusto e sapore.

Eppure, ogni giorno assumiamo circa dieci volte la quantità di sale di cui avremmo bisogno: si stima che un adulto italiano mediamente assuma ogni giorno circa 9 g di sale, gli uomini ne consumano più delle donne (10 g contro 8 g al giorno).

E a livello globale la situazione non è migliore: si stima infatti che la maggior parte degli adulti consumi tra gli 8 e i 15 g di sale al giorno.

È stato stimato che la quantità di sale che dovrebbe essere consumata per avere il giusto compromesso tra soddisfazione del gusto e prevenzione dei rischi per la salute sia di 5 g/die, che corrisponde a circa un cucchiaino da tè (4 g/die per gli anziani, in quanto categoria già di per sé più a rischio di patologie a carico del sistema cardiovascolare e di ipertensione).

Per sensibilizzare i consumatori sull’eccessivo consumo di sale, si è tenuta anche quest’anno, tra il 9 e il 15 marzo, la settimana mondiale per la riduzione del consumo di sale, promossa dal World Action on Salt & Health. Il tema era il sale “nascosto” negli alimenti: l’industria alimentare, infatti, “nasconde” spesso moltissimo sale negli alimenti disponibili sul mercato.

Si stima che le fonti di sodio nella nostra alimentazione siano così suddivise:

  • 35% della quota che assumiamo è dovuto al sale che aggiungiamo nelle preparazioni casalinghe e direttamente a tavola;

  • 50% di questa quota è dovuto al sale presente all’interno dei prodotti confezionati e trasformati, sia artigianali che industriali;

  • 15% è invece rappresentato dal sodio naturalmente contenuto negli alimenti.

Risulta evidente, quindi, che i prodotti trasformati giochino un ruolo fondamentale nell’eccesso di sodio nella nostra alimentazione quotidiana ed è questo il motivo principale per cui l’attuale regolamento UE prevede l’indicazione obbligatoria, fra le indicazioni nutrizionali in etichetta, della quantità di sale contenuta in un prodotto, sia su 100 g di prodotto che su unità di consumo.

Imparando a leggere bene le etichette nutrizionali dovrebbe essere quindi possibile capire quanto sale si sta effettivamente assumendo, scegliendo di consumare un determinato alimento piuttosto che un altro.

Resta evidente che in questo modo la responsabilità di fare le scelte giuste per seguire uno stile di vita più sano ricade comunque direttamente solo sui consumatori: se con un po’ di sforzo risulta abbastanza semplice dosare e contenere il sale impiegato nelle preparazioni domestiche, più difficile è invece identificare quanto sale si sta assumendo consumando prodotti confezionati o mangiando fuori casa.

I consumatori sono costretti a cercare fra una moltitudine di opzioni quelle a più basso contenuto di sale e non è sempre facile per tutti leggere, capire e confrontare le varie etichette dei prodotti.

Lo stesso problema si presenta quando si mangia fuori casa: è infatti impossibile conoscere la quantità di sale aggiunta nei piatti perché, non trattandosi di un processo industrializzato e meccanizzato, gli chef aggiungono un diverso quantitativo di condimento ogni volta che cucinano un piatto.

Sono ormai disponibili da tempo le Linee guida per una sana alimentazione rilasciate dal CREA (Centro di ricerca alimenti e nutrizione) all’interno delle quali è presente un intero capitolo dedicato al sale, al suo consumo e a come limitarne l’impiego per prevenire il rischio di insorgenza di patologie croniche dal titolo Il sale? Meno è meglio, ma ovviamente questo non è sufficiente.

Per questo motivo il ministero della Salute ha lanciato, all’interno del programma Guadagnare Salute, alcune iniziative per sensibilizzare la popolazione sulla necessità di diminuire il consumo e l’impiego di sale.

Queste iniziative non sono più rivolte solo ai consumatori, ma coinvolgono in prima linea i produttori; fra queste sono infatti in atto collaborazioni con aziende e associazioni di categoria per ridurre gradualmente il contenuto di sodio nel pane artigianale e industriale, negli gnocchi confezionati, in primi piatti pronti, zuppe e passati di verdura surgelati e molti altri.

Queste iniziative, insieme a quelle promosse direttamente dalla World Action on Salt & Health, si inseriscono nel piano d’azione globale dell’OMS per la prevenzione delle malattie non trasmissibili, che prevede una riduzione globale del consumo di sale del 30% entro il 2025.

Fonti e approfondimenti:

www.crea.gov.it/web/alimenti-e-nutrizione/-/linee-guida-per-una-sana-alimentazione-2018

https://ilfattoalimentare.it/settimana-mondiale-sale-2020.html

http://www.worldactiononsalt.com/awarenessweek/

www.epicentro.iss.it/guadagnare-salute/programma/